di Fabio Ceccarini
Approfondiamo, con questo articolo, il tema di un post comparso qualche tempo fa su Facebook riguardo l'uso dell'articolo determinativo singolare maschile 'u (il) nel dialetto capranichese. E chi lo detesta a motivo che «questa u fa sembrare il nostro dialetto un gergo burino» si metta calmo e legga quest'articolo. Perché... mecchì dicemo ‘u!
Capita sempre più spesso, oggigiorno, di ascoltare giovani che maldestramente si cimentano nella parlata dialettale capranichese. Nonostante la lodevole buona volontà, bisogna dire infatti che i risultati sono pessimi, sia dal lato della pronuncia, orrendamente imbarbarita dal roman(acci)o televisivo, sia da quello della proprietà delle espressioni e dei vocaboli in relazione alle situazioni (ovvero locuzioni e lemmi giusti al momento giusto). Tutto ciò è ovviamente frutto e conseguenza di un percorso di progressivo allontanamento dai dialetti che affonda le sue radici negli anni Cinquanta del secolo scorso, e che ha visto una sorta di necessaria e forzata italianizzazione della lingua parlata lungo la Penisola al fine di uniformarla attraverso l’uso massiccio dei mass-media (in primis televisione, radio e carta stampata). Dalla lingua teorizzata dall’Alfieri e dal Manzoni, usata sui libri già prima dell’Unità d’Italia ma tutt’altro che parlata, dopo aver fatto l’Italia si è cercato così di dar corpo al d’azegliano “fare gli italiani” dando loro un idioma comune.
Accorgendosi, però, di come l’italiano ufficiale, a discapito dei dialetti, si trasformasse man mano in tanti linguaggi settoriali e tecnicissimi, nel 1965 Italo Calvino scriveva:
«Finché l’italiano è rimasto una lingua letteraria, non professionale, nei dialetti (quelli toscani compresi, s’intende) esisteva una ricchezza lessicale, una capacità di nominare e descrivere i campi e le case, gli attrezzi e le operazioni dell’agricoltura e dei mestieri che la lingua non possedeva. La ragione della prolungata vitalità dei dialetti in Italia è stata questa. Ora questa fase è superata da un pezzo: il mondo che abbiamo davanti, - case e strade e macchinari e aziende e studi, e anche molta dell’agricoltura moderna, - è venuto su con nomi non dialettali, nomi dell’italiano, o costruiti su modelli dell’italiano, oppure d’una interlingua scientifico-tecnico-industriale, e vengono adoperati e pensati in strutture logiche italiane o interlinguistiche. Sarà sempre di più questa lingua operativa a decidere le sorti generali della lingua».[1]
I dialetti, quindi, avevano fatto da padroni nella vita comune di tutti i giorni, lasciando invece la lingua italiana a riempire le pagine dei libri e a tecnicizzarsi sempre di più negli ambiti della burocrazia, della politica, delle scienze (ciò che Calvino chiamava antilingua). Da questa sorta di bilinguismo iniziale, durante il quale l’italiano e il dialetto hanno convissuto, siamo però giunti progressivamente, durante gli anni, alla vittoria pressocché totale della lingua italiana: parlata in televisione, letta sui libri, ascoltata alla radio è ormai – giustamente – la nostra lingua, quella degli italiani, strumento finalmente identitario come agognavano Alfieri, Manzoni e relativo seguito di personaggi risorgimentali (e tuttavia senza che la Costituzione ne sancisca espressamente l'ufficialità). Per cui, per arrivare alla vittoria dell’italiano parlato, il dialetto è stato dapprima incarcerato all’interno delle mura domestiche e poi abolito anche qui, nella doppia convinzione che potesse interferire sul corretto apprendimento della lingua italiana e che l’esprimersi in dialetto divenisse chiara denotazione di scarso prestigio sociale e di borgatara condizione (Ah! Che schifo! Parla in dialetto!).
«La percentuale di persone parlanti esclusivamente il dialetto, già inferiore rispetto ai parlanti il solo italiano, si è andata riducendo più drasticamente in ogni ambito sociale soprattutto nel periodo fra il 1987/88 e il 1995. Il divario fra italiano e dialetto è diventato sempre più ampio, l’uso misto si è fatto meno frequente negli ambienti più formali mentre è lievemente aumentato in quelli più informali, segno di un uso contestualmente differenziato del dialetto e, secondariamente, di una sua rivalutazione. I dati più recenti, aggiornati al 2006, confermano questa tendenza: la competenza esclusiva del dialetto è circoscritta al solo 6 % della popolazione. Sono le persone con più di 60 anni a fare maggior uso del dialetto. Il vernacolo finisce col prevalere nettamente sull’italiano solo fra i parlanti più anziani. Se il dialetto è poco praticato dai bambini e dagli adolescenti, è fra i giovani tra i 18 e i 34 anni che si registra un cambio di tendenza significativo, con un calo progressivo di coloro che parlano prevalentemente italiano in tutti i contesti sociali ed un assestamento dei bilingui attorno al 30 %»[2].
Ma non c’è da stare allegri. Perché se si assiste ad una sorta di ritorno dei dialetti tra i componenti della fascia di età 18-34 anni, i risultati sono disastrosi perché alle parlate tradizionali si sono sostituite velocemente dei veri e propri gerghi triviali, di cattivo gusto, per niente divertenti e tutt'altro che affascinanti. Pensiamo al romanesco storico, fissato indelebilmente nelle battute dei personaggi dei film di Luigi Magni, che nell’ultimo trentennio è stato tristemente soppiantato dal romanaccio borgataro parlato da presunti comici e condito di parolacce. Oppure, sempre nell’ambito laziale, al viterbese vernacolare divenuto ormai macchietta di sé stesso, che viene veicolato sui canali youtube, vero e proprio prodotto della sottocultura trash che affligge il tempo che viviamo.
E quindi, per farla breve, non ci possiamo stupire più di tanto se anche a Capranica, patria indiscussa dell’u determinativo, assistiamo ad una sua sostituzione con ‘o, oppure con er (anche se, come vedremo, questa forma dialettale è comunque contemplata nel dialetto capranichese), facendo sparire dai radar quello che, secondo Giuseppe Morera, è «l'elemento più caratteristico del dialetto capranichese».
Un gruppo di "giovani" di un tempo ormai passato, immortalati negli anni Novanta del '900 al Bar Ruscelli. Loro si, che sapevano usare in maniera appropriata l'articolo 'u! (foto tratta dalla pagina Facebook, VOLTI CAPRANICHESI - Tagga l'Avo! pubblicata da Rosella Ioncoli il 4 aprile 2023) |
L’articolo ‘u (il, lo)
Come scriveva il Generale Morera nel 1985, questo elemento caratteristico «…è costituito dall'articolo determinativo maschile singolare «il» trasformato in u fortemente aspirato ('u) quasi a ricordo della elle caduta per ultima nel processo di decapitazione del pronome dimostrativo latino ille, illud, ablativo illo, dal quale deriva»[3].
Non si può immaginare il dialetto capranichese senza l’uso dell’articolo ‘u, ovviamente posticipato dal segno di elisione ad indicare che un tempo quell’articolo non era altro che il latino illud, poi trasformatosi in lu e quindi nell’attuale ‘u. A Ronciglione si dice ‘o; a Bassano Romano anche; a Sutri si dice lo e a Nepi anche; a Vetralla si dice el e a Capranica si dice ‘u! E chi detesta l’articolo‘u perché «questa u fa sembrare il nostro dialetto un gergo burino», più somigliante al ciociaro o ad altri dialetti meridionali (e dove starebbe, poi, questa insopportabile vergogna?)[4], si dia una calmata e se ne faccia una ragione perché... mecchì dicemo ‘u!
E allora, andando al sodo, ecco qualche esempio di corretta espressione in perfetto stile dialettale capranichese:
‘u ca’ (il cane)
‘u tirato’ (il cassetto)
‘u refe (il filo)
‘u loto (il fango)
'u sorce (il topo)
‘u billo (il tacchino)
‘u tortore (il bastone)
‘u plonchise (il cappotto)
‘u rocchio (la salsiccia)
‘u raghino (il ramarro).
E ci fermiamo qui anche se potremmo continuare a lungo.
Quindi la regola generale è che l’articolo il dell’italiano, in presenza di un sostantivo
maschile, nel dialetto capranichese si trasforma sempre in ‘u. Pertanto, è sempre sbagliata la sostituzione di ‘u con ‘o, perché
tale improvvida manovra porta al grave risultato di spostare velocissimamente (ed automaticamente) il
parlante a qualche chilometro di distanza da Capranica, trasformandolo in ronciglionese o in bassanese e quindi non più capranichese. E' anche una questione di simpatico e sano campanilismo senza alcuna volontà di offendere gli amici dei paesi circonvicini, ai quali ci lega la comunanza d'appartenenza al medesimo ceppo dialettale laziale.
Capranica, infatti, in comune con Bassano Romano e Ronciglione, si trova su una sorta di sfumata linea di demarcazione tra i dialetti laziali di influenza romana e quelli di influenza umbro-sabina che risento già di qualche influsso toscano. Uno degli esempi è l’uso della
parola babbo, totalmente assente a Capranica, dove si usa papà, ma
presente invece nei paesi a nord dell’area cimina, a cominciare da Vetralla (a nord-ovest) e Canepina/Soriano nel Cimino (a nord-est).
Antonio
Sciarretta, sul suo sito Antonio Sciarretta's Toponymy. Dialettologia
dell'Italia centro-meridionale (http://www.asciatopo.altervista.org/) passa in rassegna in maniera
esaurientissima le particolarità dei dialetti centro-meridionali, tra cui
quelli laziali. Dalle figure che seguono, si evidenzia come il capranichese e gli altri dialetti dell'area Cimina si trovino in una zona del Lazio che è confine tra influenze diverse.
Apocope di -ne nella Regione Lazio (tratto da: http://www.asciatopo.altervista.org/Lazio_apocope.jpg) |
Vocali atone (http://www.asciatopo.altervista.org/Lazio_atone.jpg) |
Ma non solo nel capranichese l'articolo determinativo il diventa 'u. Anche l’articolo lo viene sostituito da ‘u: tanto quando precede verbi in prima persona singolare, quanto nei casi in cui preceda alcuni sostantivi. Ecco alcuni esempi:
‘u sa (lo sa)
‘u vede (lo vede)
‘u regge (lo regge)
‘u guarda (lo guarda)
‘u zucchiro (lo zucchero)
‘u sporco (lo sporco).
Ci sono anche delle eccezioni, tuttavia, perché l’articolo ‘u può essere sostituito dalla forma romanesca er, allorché compare all’interno di una frase:
s’e magnato pure er Cibborio! (si è mangiato tutto, anche il Ciborio)
l’ha detto er sindico ier’a sera (lo ha detto il sindaco ieri sera)
All’articolo ‘u è anche legata fortemente la pronuncia chiusissima della vocale -o posta in finale di parola, che a causa dell’espirazione forzata dell’aria dal cavo orale, spinta in alto attraverso il naso, viene resa tanto gutturale da sembrare a tutti gli effetti una -u (metafonesi). D’altronde, un famosissimo detto popolare capranichese vuole che si nun parlassimo popo’ c’u naso, saressimo perfetti roma’. Pertanto, il sostantivo maschile che precede l’aggettivo viene ad essere caratterizzato da questa vocale che – di nuovo – è verace peculiarità del vernacolo capranichese. Ecco qualche esempio:
a musu duru (a muso duro);
quillu nun capesce (quello non capisce);
quannu pozzu veni’ jò? (quando posso venire giù?);
in un menutu solu (in un minuto solo)
Ed ecco di seguito qualche esempio di composizioni in vernacolo (con traduzione a fronte), dove ben si evince l’uso del suddetto articolo ‘u e della metafonesi in -u della -o.
Sottu l’imperu ’i quillu granne Ottone, Durante l’impero di
quel grande Ottone
ch’u popilu todescu cummannava, Che il popolo
tedesco comandava
Crapanica fu mesta in suggezzione Capranica fu
assoggettata
C’un gran Diproma, dove dichiarava con un gran diploma,
dove dichiarava
che tutti, u territoio, ‘e crape e i prati, che tutti, il
territorio, le capre e i prati
‘gne cosa ‘nsomma, cumme contentinu ogni cosa insomma, come
contentino
ava da l’esse datu a quilli frati deve
essere dato a quei frati
du Munasteru su pe’ l’Aventinu. del Monastero
sull’Aventino
Accusinta si i’ finu ar docentu Così si
andò fino al Duecento
finanta ch’arrivannu l’Anguillara fino a che arrivarono
gli Anguillara
che piannu ‘gne cosa a mu cunventu, che presero tutti i
beni al convento
sullevannu all’intornu gran cagnara[5]. sollevando d’intorno
una gran cagnara
E ancora:
Quannu che da bardascio, Quando
che da ragazzetto,
chiappavu via da casa scappavo
(alla chetichella) via da casa
cun sorima o cun fratimo con
mia sorella o con mio fratello
pe’ lane ‘a Mattonara, in
direzione della Mattonara
cu’ ‘e scarpe ed’era raro, che
avessimo le scarpe era raro
e si ci l’ammu, rotte, e
se ce l’avevamo erano rotte
u locu a noi più caro il
luogo a noi più caro
edera l’acquaforte[6]. era
l’acquaforte
Caratteristiche del dialetto capranichese
Caratteristiche del dialetto capranichese sono quindi le seguenti:
Raddoppiamenti fonosintattici (raddoppiamento nella pronuncia subìto dalle consonanti):
ll’ha dato ll’agobbio (gli ha procurato molto fastidio, tedio);
eccu Monte Commido! (arriva “monte comodo” = persona che prende le cose con eccessiva calma);
doppo (dopo);
cumme (come);
Metafonesi (modificazione del timbro della vocale):
della -o in -u: a musu duru (a muso duro); quillu nun capesce (quello non capisce); fugna (fogna);
della -i in -e: lengua (lingua); capesce (capisce);
della -u in -o: ogna (unghia); ossogne (sugna); lopo (lupo)
della -a in -e in alcuni sostantivi femminili plurali: ‘e legne (la legna); ‘a spese (la spesa); ll’ossogne (la sugna)
del dittongo -uo in -o: focu (fuoco); locu (luogo); coco (cuoco)
Apocope (caduta della vocale finale ed eventualmente anche della consonante che la precede) di -ne e -no:
pa’ (pane); vi’ (vino); ca’ (cane); ‘gosti’ (Agostino)
Aferesi (caduta di uno o più foni all’inizio di parola) di l-, di i-, di -u:
'e (le);
'u (lu);
‘nzomma (insomma);
‘n (un);
edè ‘nnamorato (è innamorato);
‘gnorante (ignorante);
‘mbriaco (ubriaco);
‘gne (ogni)
Palatalizzazione di -gli-:
fijio (figlio); mejio (meglio); mojie (moglie);
Assimilazioni
Regressiva totale:
di -nd- in -nn-:
monno (mondo);
tonno (tondo);
gronna (gronda);
fionna (fionda);
granne (grande)
di -mb- in -mm-:
- commatte (combattere)
di -mp- in -pp-:
Coppare (compare)
di -nt- in -tt-:
settattasette (settantasette);
ottatta (ottanta)
a distanza:
di -s- in -z- (sonorizzazione):
anzalata (insalata); penza’ (pensare)
di -vv- in -bb-:
abboje (avvolgere)
di -di- e -ti- in -ghi- e -chi-:
ghieciotto (diciotto);
crischiano (cristiano)
Un po’ di consigli per conoscere meglio il dialetto capranichese (e tornare a parlarlo)
Quindi chi avesse voglia di conoscere meglio il nostro dialetto (e tornare a parlarlo), presso la Biblioteca Comunale “Alfredo Signoretti” può andare a chiedere in prestito uno o più di questi preziosi testi e magari cimentarsi a leggere qualche componimento in vernacolo:
- Trento Morera,
La storia di Capranica, tip. Antonetti, Roma 1965, con illustrazioni di
Sandro Badiali.
Questo piccolo volumetto (appena una ventina di pagine), ha avuto diverse ristampe, nel 1970, nel 1974 e nel 2014 a cura dell’Amministrazione Comunale. Contiene un poemetto in versi dialettali che ripercorre la storia di Capranica con la leggenda della sua fondazione che sarebbe avvenuta il 7 luglio 772 ad opera degli scampati alla distruzione di Vicus Matrini.
- Trento Andreotti,
‘u pigno ‘ill’acquaforte, tip. Grafica 2000, Ronciglione, 1991.
Contiene una serie di poesie dialettali, soprattutto ricordi dell’Autore, che
raccontano di luoghi e fatti di un tempo passato.
- Antonio
Sarnacchioli, Capranica invito a conoscerla, Centro Maria Loreta,
tip. Romagrafik, Roma 1984.
E’ la prima vera raccolta di detti popolari e proverbi
che raccoglie un piccolo glossario di 620 lemmi e 762 soprannomi;
-Trento Morera,
Appunti di grammatica dal volgare capranichese, tip. Romagrafik, Roma,
s.d. [2003].
Come indica il titolo, l’Autore ha cercato di sistematizzare il
dialetto capranichese codificandone la grammatica, dalla morfologia alle
coniugazioni dei verbi e riporta nuovamente (peraltro con pochi inediti contributi)
il lavoro precedentemente fatto da Antonio Sarnacchioli e i giovani del Centro Maria Loreta;
- Giuseppe Morera,
Toponimi e vecchio dialetto, Capranica 1985, p. 9.
Il piccolo volumetto
è confluito in Giuseppe Morera,
Capranica vista da vicino, Tip. Romagrafik, Roma 1985. L’Autore passa in
rassegna vari aspetti del dialetto capranichese, soffermandosi su alcune sue
peculiarità.
[1] Italo Calvino, L’Antilingua, Il Giorno, 3 febbraio 1965.
[2] Flavia Gramellini, l dialetto del nuovo millennio: usi, parlanti, apprendenti, in Ianua. Revista Philologica Romanica, Vol. 8 (2008): 181–201
[3] Giuseppe Morera, Toponimi e vecchio dialetto, Capranica 1985, p. 9. Il piccolo volumetto è confluito poi in Giuseppe Morera, Capranica vista da vicino, Tip. Romagrafik, Roma 1985.
[4] Antonio Sciarretta, in Dialetti del Lazio (http://www.asciatopo.altervista.org/dialetti_lazio.html), parla di tratti dialettali avvertiti dai parlanti come 'arcaicizzanti' e quindi sconvenienti rispetto a parlate più regolari e perciò più 'moderne'.
[5] Trento Morera, La storia di Capranica, tip. Antonetti, Roma 1965, con illustrazioni di Sandro Badiali
[6] Trento Andreotti, ‘u pigno ‘ill’acquaforte, tip. Grafica 2000, Ronciglione, 1991, p. 15
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CECCARINI, Fabio, «Mecchì dicemo ‘u. Qualche considerazione sull’articolo determinativo singolare maschile il nel dialetto capranichese», Capranica Storica, 19/01/2024 - URL: https://www.capranicastorica.it/2024/01/mecchi-dicemo-u-qualche-considerazione.html
Questo articolo di Fabio Ceccarini è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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