giovedì 4 gennaio 2024

Vecchiarella jotta: il colombario romano del bosco di Marco’ e la festa della Befana nella tradizione capranichese

di Fabio Ceccarini

In occasione dell'Epifania, ripercorriamo insieme una delle perdute tradizioni capranichesi legate alla Befana e alla grotta della Vecchiarella, nel misterioso bosco di Marco'.

Ancora fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, di buon ora la mattina del 6 gennaio, uno strano e chiassoso corteo composto di bambini e qualche adulto, si formava per le vie di Capranica recitando questa cantilena:

«Vecchiarella jotta,

c’una fetta ‘i pane in bocca,

c’una tavola s’un capo,

vecchiarella scorticata»[1]

Dalla Viccinella[2], punto di ritrovo per la partenza, l’estemporanea processione si muoveva scendendo per i greppi di tufo della Rosarella[3], a sud dell’abitato, in direzione del fondo valle percorso dal fosso d’e gradelle[4] da dove, guadato il corso d’acqua, si avviava con decisione in salita su per il costone di Marco’[5]. La meta della bizzarra sfilata era la Grotta della Vecchiarella, un antro di tufo ben protetto dalle chiome sempreverdi dei lecci, con l’affaccio pericolosamente strapiombante su un alto dirupo. I munelli[6], armati di bidoni, mestoli, coperchi di rame, campanacci e qualsiasi altro utensile capace di rumoroso suono, battevano sugli improvvisati strumenti per dare il ritmo alle strofe della cantilena, producendo un fragore assordante. Arrivati alla meta, fiaschi di vino comparivano improvvisamente dalle sacche dei pochi adulti partecipanti, il cui rosso contenuto accompagnava una frugale e povera merenda, riscaldando i cuori dal freddo invernale. Terminato l’ancestrale rito, con la medesima facilità con cui si era formata, la processione si scioglieva, e tutti ritornavano nelle loro case popolando di risa e di voci le piazzette e i vicoletti del borgo. E tuttavia non senza aver prima visitato l’antro della Vecchiarella e aver percorso il piccolo cunicolo che mette in collegamento i due ambienti di cui è composto. Constatando la totale assenza di essere umano.

Il cunicolo che mette in collegamento i due ambienti della grotta della Vecchiarella

Secondo la tradizione infatti, fin da un’epoca remota e immemorabile, una povera vecchiarella avrebbe abitato la misteriosa spelonca. Al suo interno, conservati in decine e decine di piccole cellette scavate nel tufo, l’anziana donna teneva in serbo i dolciumi da recapitare ai bambini buoni durante la notte tra il 5 e 6 gennaio. E in un angolo, sotto ad una improvvisata cappa che perforava il tetto della grotta, resa nera dalla fuliggine, teneva da parte tanto carbone di legna, nero come la pece, con il quale puniva i monelli che durante l’anno precedente si erano comportati da discoli.

Era, la vegliarda, una vecchia di repellente bruttezza, che non doveva essere vista. Per questo motivo il corteo annunciava il suo arrivo con schiamazzi e baccano: affinché potesse scappare e nascondersi di nuovo – chissà dove? – fino al suo ritorno, l’anno venturo, in un ciclo antico come il mondo, che si ripeteva sempre uguale.

 

La Befana secondo l’iconografia classica

E’ chiaro come la Vecchiarella capranichese abbia gli stessi connotati dell’iconografia classica con la quale è dipinta la Befana, figura tradizionale esclusivamente italiana ed estranea – seppure con qualche eccezione non proprio assimilabile[7] – ad altri paesi europei: un gonnellone scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un fazzoletto in testa[8], un paio di ciabatte consunte, schiena ricurva e gibbosa, un naso lungo e foruncoloso, un mento prominente e ossuto. Una filastrocca diffusa in tutta la Penisola, con numerossime varianti provinciali e locali, ci restituisce molta di questa iconografia. Così recita:

1. La Befana vien di notte
2. con le scarpe tutte rotte
3. con le toppe alla sottana:
4. Viva, viva la Befana![9]

E se le strofe 1 e 2 compaiono nella stragrande maggioranza delle versioni, le strofe 3 e 4 sono dedicate di volta in volta all’abbigliamento della vecchia, oppure alla sua funzione di dispensatrice di doni o di punizioni. Abbiamo quindi, alla strofa 3:

  • le toppe alla sottana;
  • il vestito (oppure il cappello) alla romana;
  • la scopa di saggina;
  • con la scopa e la sottana;
  • il sacco pien di toppe;
  • le ossa tutte rotte;
  • la gerla sulle spalle;
  • la sottana scucita;
  • il vestito misto lana; 

E alla strofa 4, con la funzione di completamento della strofa precedente:

3. con un sacco pien di doni / 4. da portare ai bimbi buoni;
3. viene e bussa alla tua porta / 4. sai tu dirmi che ti porta?;
3. viene, bussa e scappa via / 4. la befana è mamma mia;
3. scende, scende dai camini / 4. per la gioia dei bambini;
3. porta doni ai più piccini / 4. ai più tristi e poverini!

Le piccole cellette all'interno della grotta:
vi si conservavano urne cinerarie o vi si allevavano piccioni?


La Befana, la Vecchia, la Vecchiarella

Ecco quindi, alla luce di quanto esposto, che la Vecchiarella capranichese è perfettamente sovrapponibile al personaggio tradizionale della Befana, compresa l’usanza locale della processione alla sua dimora, improvvisata dai bambini la mattina dell’Epifania del Signore, il 6 gennaio.

E’ la festa dell’Epifania che chiude il ciclo dei dodici giorni successivi al Natale. Popolarmente conosciuta come festa della Befana, chiara corruzione del meno digeribile termine Epifania (dal greco epifáneia = manifestazione, trasformatosi prima in pifania e successivamente in bifania, beffanìa, befanìa, befana), questa ricorrenza affonda le sue radici nelle festività lunari, legate ad antichi calendari connessi al nostro satellite, impregnate della simbologia del suddetto astro, presentandosi come momento rituale dedicato all’infanzia e al mondo femminile[10].

Nella tradizione contadina, la dodicesima notte è notte di miracoli, trasformazione, metamorfosi. Allo scoccare della mezzanotte gli animali acquistano parola ed ogni cosa muta forma: «…le lenzuola in lasagne, le mura in cacio, l’acqua in vino (…) tutti i desideri si esaudiscono, gli alberi danno frutti d’oro»[11].

E’ dunque in questa notte, la dodicesima dopo il Natale, che si conclude il periodo di passaggio dal vecchio anno a quello nuovo cominciato col Natale, la festa del Sole invitto, che rinasce e che fa crescere il giorno in lunghezza[12]. Da questo punto di vista, l’Epifania ha perciò valore di Capodanno e la notte tra il 5 e il 6, come la notte di San Silvestro, tra il 31 dicembre e il 1° gennaio – la notte del “capo dell’anno” – si ripetono prodigi e sortilegi. Tanto che quella notte gli animali ricevevano razioni più abbondanti del solito o addirittura doppie per evitare che dopo la mezzanotte si lamentassero tra loro, scambiandosi con voce umana racconti sul trattamento subito da parte del padrone[13].

In questa notte di passaggio e magica, in cui anche i morti sono liberi di frequentare il mondo sensibile, la Befana, raffigurata come una vecchia rinsecchita, diventa anch’essa simbolo dell’anno vecchio, un essere destinato alla morte per far rinascere la vita, ma che prima di morire e di sparire dalla vista – immaginata – offre doni, dolciumi e regali. Diventa quindi un tramite tra il mondo dei vivi, destinato a sopravvivere con l’iniziare dell’anno, e il mondo dei morti, seppellito con l’anno vecchio. Nel Veneto, durante la notte della Befana, si faceva grande baccano con lo scopo di scacciare le forze malefiche dai campi e dai paesi, e quindi si accendeva un fuoco dove si bruciava la Vecia, un pupazzo orrendo che simboleggiava il male. In Piemonte si usava segare la vecchia e trarne dal ventre dolci e frutta fresca. In Sicilia, la Carcavecchia e la Vecchia Strina[14] vengono rincorse per strada da centinaia di bambini e ragazzi urlanti armati di padelle e pentole, corni di bue e cerbottane. La Vecchia, in molte parti d’Italia, veniva così cacciata per mezzo del chiasso e del rumore per farla tornare nel suo mondo soprannaturale e in alcuni casi addirittura catturata, uccisa e bruciata. Il corteo della Vecchiarella in ambito capranichese assume allora, analogamente a questi esempi, la valenza di cacciata della Befana dal suo inaccessibile antro, a mezzo di rumore e chiasso, al fine di respingerla nel suo mondo “altro”, ultrasensibile, e seppellirla insieme ai morti e all’anno vecchio. Non a caso, la tradizione popolare del luogo si è immaginata che la megera abitasse in un luogo eminentemente dedicato ai defunti, eppure non lontanissimo dal centro abitato – il mondo dei vivi –, e tuttavia contemporaneamente nascosto alla vista, pericoloso e inaccessibile.

Il bosco di Marco' (area retinata celeste) e la piccola elcetella (area retinata bianca)
che custodisce la grotta della Vecchiarella

L'area sacra di Marco'

Il colombario romano de La Vecchiarella

A sud dell’abitato di Capranica, sulla destra orografica del torrente Rotoli, tributario del Treja e appartenente al bacino del Tevere, ad una quota di circa 370 mslm, si trovano due grotte di tufo collegate tra loro tramite un basso cunicolo, all’interno delle quali sono visibili decine di nicchiette scavate nella roccia. Si tratta di un colombario di epoca romana, destinato alla conservazione di urne cinerarie. Il sito è stato studiato per la prima volta da Patrizio Pensabene nel 1983, su segnalazione di Angelo Galli[15]. La forma delle nicchie del colombario, le loro dimensioni e la loro maggiore o minore uniformità sulle pareti, forniscono utili informazioni sia sul livello sociale dei defunti, sia sulla loro appartenenza ad uno stesso strato sociale (inteso come posizioni economiche e sociali diverse all'interno di una stessa classe). Da queste analisi, si può ritenere, secondo Pensabene, che nel caso in esame si può fare riferimento «…alle forme di produzione schiavile e quindi al relativo altissimo numero di schiavi presenti negli ergastula delle ville rustiche soprattutto dalla fine del II sec. a.C. agli inizi del II sec. d.C.»[16]. Tuttavia l’Autore, in relazione al problema del riutilizzo, in epoca medievale, di tombe a colombario come colombaie per l’allevamento di colombi, «…ritiene anche sia necessaria una ripresa del problema per una definizione di modelli più articolati da usare per l'individuazione della funzione di quei monumenti le cui caratteristiche li pongano in una zona intermedia tra i colombari sicuramente ad uso funerario e quelli sicuramente ad uso di colombaie…»[17], come sembrerebbe collocarsi questo di Capranica[18]

La pianta della grotta con i due vani A e B collegati da un cunicolo (tratto da P. Pensabene, Un colombario a Capranica (VT))

Sezione del colombario B (tratto da P. Pensabene, Un colombario a Capranica (VT))


Le piante di leccio

Ciononostante, non si può fare a meno di constatare la presenza di un elemento naturale che ci fa ricondurre il primitivo uso dei due piccoli ambienti, a quello di sepolture per urne cinerarie: la pianta del leccio (quercus ilex L.). Intorno al sito, se ne trovano grandi esemplari abbarbicati nella roccia di tufo, con diametri notevoli e altezze di oltre 10/12 metri. Nel bosco di Marcò, che pure misura circa 11 ettari, si contano pochissimi esemplari di leccio, peraltro isolati. L’area in questione, invece, che misura solo circa 6 centiare, è invece caratterizzata dalla uniforme presenza del leccio.

La valle del torrente Rotoli (fosso de' gradelle). Il cerchio rosso individua la zona di ubicazione della grotta della Vecchiarella.
 

Nell’antichità, si credeva che il leccio avesse proprietà oracolari dato che aveva la capacità, come altre querce, di attirare i fulmini. Il fogliame scuro e nereggiante che lo caratterizza, ha contribuito poi notevolmente acché nel tempo gli fosse data una valenza triste e cupa, tanto che lo si accostava alle sepolture e alle zone scelte per funzioni funerarie. Secondo i Greci, infatti, con le sue foglie usavano incoronarsi le Parche, divinità raffigurate come vecchie scorbutiche che, munite di filo e forbici, presiedevano ai destini degli uomini. Anche nell’antica Roma, si continuò a dare al leccio la medesima valenza a metà strada tra sacro e funesto come presso i Greci. Ai piedi dell’Aventino sorgeva un bosco di lecci, dove si voleva dimorasse la ninfa Egeria. E sul Colle degli Indovini, il colle Vaticano, si stagliava il leccio più antico dell’Urbe, recante un’antica iscrizione in caratteri etruschi. I boschi di leccio o le piccole elcetelle – isole di vegetazione caratterizzate da gruppi di lecci che sorgono all’interno di boschi più grandi formati da altre specie – furono così man mano utilizzati per ricavarne aree sacre dove far riposare i morti, ben protetti da una fitta ombra. Tra l’altro, essendo il leccio una pianta sempreverde e di un verde molto scuro, si poteva individuare l’area sacra anche da lontano tanto in inverno, quando le altre specie, come il castagno, avevano perso le foglie, quanto in estate, proprio grazie al colore della macchia scura formata dalle chiome di questi alberi.



[1] Questa, come altre filastrocche e cantilene, si trova raccolta in Antonio Sarnacchioli, Capranica. Invito a conoscerla, Capranica, Centro Maria Loreta, tip. Romagrafik, 1984, p. 24

[2] Contrada del centro storico di Capranica

[3] Porzione de la Viccinella, disposta a ridosso del costone tufaceo sud

[4] Il torrente Rotoli, comunemente detto fosso d’e gradelle (delle gradelle = piccoli gradini o forse piccole grate)

[5] Bosco di Marcone, troncato in Marco’ (o finale chiusa), situato sul versante orografico destro del Rotoli, proprio dirimpetto all’abitato del paese

[6] Bambini, monelli

[7] Ci si riferisce qui agli esempi della Holda germanica, protettrice dei defunti nonché dea delle tempeste, che viene accompagnata da una cicogna; alla Perchta austriaca talvolta raffigurata con becco e zampe di gallina; ma anche alla Strina di Ciminna, un paese siciliano in provincia di Palermo, che esce dal suo castello soltanto a Natale facendosi formica o uccello per meglio penetrare nelle case passando per i tetti o i camini. Cfr. Silvia Ippolito, La Befana: antenata donatrice, Nonna del fuoco, Vecchia/Strega d’Inverno, www.academia.edu

[8] E’ errato ed estraneo a questa iconografia il cappello da strega, frutto delle recenti contaminazioni/corruzioni halloweeniane.

[9] Le numerosissime varianti sono state raccolte, negli anni, sul sito www.filastrocche.it, cui si rimanda.

[10] Cfr. Claudia Manciocco-Luigi Manciocco, L'incanto e l'arcano: per un'antropologia della befana, Roma, A. Armando ed., 2006, p. 148

[11] ibidem

[12] Anno novo, quanto arza un zampo ‘i bovo cresce ‘a giornata = con l’inizio del nuovo anno le giornate tornano lentamente a crescere con minima differenza come la lentezza con la quale un bue alza una zampa (Antonio Sarnacchioli, Capranica. Invito a conoscerla, cit., p. 24)

[13] Silvia Ippolito, La Befana: antenata donatrice, Nonna del fuoco, Vecchia/Strega d’Inverno, www.academia.edu

[14] Strina = Strenna, divinità romana di origine sabina, simbolo del nuovo anno, prosperità e fortuna

[15] Patrizio Pensabene, Un colombario a Capranica (VT), in Archeologia Classica, XXXV (1983), pp. 58-73

[16] Patrizio Pensabene, Un colombario a Capranica (VT), cit., p. 59

[17] Patrizio Pensabene, Un colombario a Capranica (VT), cit., p. 62

[18] Sui colombari: Stefania Quilici Gigli, Colombari e colombaie nell’Etruria rupestre, RIASA (Rivista dell'Istituto Nazionale d'Archeologia e Storia dell'Arte), S. III, IV, 1981, pp. 105-175. L’autrice conclude il suo studio con l’affermazione: «Ritengo così di poter affermare che i cosiddetti colombari dell'Etruria furono costruiti per l'allevamento dei colombi su vasta scala, secondo quei criteri che conosciamo applicati dall'antichità fino ai tempi moderni.» (p. 110); Giacomo Mazzuoli-Giuseppe Moscatelli, Opera Columbaria. Colombari e colombaie nella Tuscia rupestre, Canino, Associazione Canino Info Onlus, 2023.

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CECCARINI, Fabio, «Vecchiarella jotta: il colombario romano del bosco di Marco’ e la festa della Befana nella tradizione capranichese», Capranica Storica, 05/01/2024 - URL: https://www.capranicastorica.it/2024/01/vecchiarella-jotta-il-colombario-romano.html

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2 commenti:

  1. Grazie Fabio!
    Interessante e ben fatto come sempre!
    Colgo l'occasione per riportare la versione della filastrocca che mi ha tramandato mio padre (classe 1916), con due piccole differenze alle righe 2 e 3
    «Vecchiarella jotta,
    c’una fetta ‘i pa'mm'a bocca,
    c’una tavala s’un capo,
    vecchiarella scorticata!»
    Dettagli ma, per quanto attiene al dialetto capranichese, trovo interessante quella congiunzione "mm" che riduce ad una forma estremamente contratta quello che sarebbe (credo) "pane alla bocca" o "pa' mellà 'a bocca".
    Anche il punto esclamativo alla fine mi sembra necessario per richiamare il tono canzonatorio con cui (stando a quanto mi è stato raccontato) veniva declamata la filastrocca

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  2. Complimenti per l'accuratezza, l'esaustività e lo stile con cui è scritto l'articolo. Ho inoltre apprezzato in modo particolare la nota sulla contaminazione halloweeniana dell'abbigliamento della befana!

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